Contro quale guerra?

Posted in Carrara on 14 dicembre 2015 by circoloanarchicogfiaschi

Volantino distribuito a Carrara durante la manifestazione di canti contro la guerra del 12 dicembre 2015

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Contro quale guerra?

Intendiamo chiarire lo spirito col quale abbiamo aderito a questa iniziativa. Dichiarando innanzi tutto che a nostro parere quello che è accaduto un mese fa durante la commemorazione della Festa della Vittoria e delle Forze Armate che si celebra ogni anno per dare lustro ad un massacro perpetrato dallo stato ai danni della popolazione non ha niente di scandaloso, perché i poliziotti che hanno brutalmente bloccato chi intonava una canzone in disaccordo con tale celebrazione istituzionale, in questo Stato democratico hanno avuto tutto il DIRITTO di farlo e se ci si azzardasse a denunciare il fatto alle istituzioni ci si renderebbe conto che è così.
La contestazione evidentemente non è un diritto e non può chiedere di esserlo, che un diritto si concede o si riconosce e il diritto al dissenso in uno Stato democratico viene concesso e riconosciuto, quasi sempre tollerato, solo se si svolge nelle forme e nei modi che lo Stato preventivamente consente e non a caso si prevede il reato di “manifestazione non autorizzata”.
Ciò è ancora più vero durante la manifestazione di una sedicente Repubblica Democratica® che celebra con toni enfatici ed onorevoli una guerra e il valore del proprio esercito (e anche qui ci sarebbe da dire, che quell’esercito era Regio), perché la Repubblica Democratica® in cui viviamo FA la guerra e la considera uno strumento politico e una risorsa economica e quindi la deve tutelare.
Non la fa adesso all’ISIS o al terrorismo, l’ha sempre fatta: in Libano, in Iraq, in Somalia, in Eritrea, in Afghanistan, in Bosnia Erzegovina, in Libia, in Ruanda e in molti di altri luoghi, perché la Repubblica Democratica® in cui viviamo è il 7° produttore di armi al mondo ed è azionista di maggioranza di un gruppo industriale (Finmeccanica) che produce e vende armi. A chiunque.
E tra l’altro le produce anche a pochi chilometri da qui.
La Repubblica Democratica® in cui viviamo impegna forze denari ed energie per sottrarre alla giustizia celebrando come eroi due mercenari che hanno ucciso due pescatori, mentre accusa di terrorismo 4 ragazzi che hanno incendiato un compressore per difendere il luogo in cui vivono dalla devastazione ambientale e dalle speculazioni.
La Repubblica Democratica® in cui viviamo si limita a chiedere spiegazioni in merito al bombardamento di un ospedale di Emergency da parte di un alleato e nei fatti ne accetta la spiegazione piegandosi alla sua (dell’alleato) ragion di stato, perché evidentemente ne condivide le ragioni, nonostante l’Art.11 della sua Costituzione le imporrebbe di “ripudiare la guerra…come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
La Repubblica Democratica® in cui viviamo quindi poi s’indigna profondamente quando i propri soldati (che per definizione servono a fare la guerra) muoiono a Nassiriya per mano di coloro che stanno combattendo chiamando attentato quello che invece si chiama fatto di guerra, che però si chiama “missione di pace”.
La Repubblica Democratica® in cui viviamo promulga leggi speciali degne dello stato di guerra, che però chiama “stato d’emergenza”, per contrastare le contestazioni di migliaia di cittadini al G8 di Genova, al MUOS in Sicilia, alla linea del TAV in val di Susa, per citare i casi più eclatanti, e sfrutterà l’attuale situazione di tensione internazionale per inasprire queste pratiche.
La Repubblica Democratica® in cui viviamo lo fa spesso utilizzando i Carabinieri, che, a volte si rischia di dimenticarlo, sono proprio soldati (che per definizione servono a fare la guerra), ed ogni volta che lo fa dunque prevede una forma di guerra.
E questo la Repubblica Democratica® in cui viviamo lo fa perché non ha ancora fatto i conti col fascismo di cui lo Stato che pretende di governare è portatore anche nelle proprie istituzioni, per citarne una l’ordinamento giuridico (e viene da vomitare a dover citare il grande bastardo Mussolini che diceva “Il fascismo non l’ho creato, l’ho trovato nelle menti e nei cuori degli italiani”).
E lo fa soprattutto perché gli Stati lo fanno.
Detto questo non siamo pacifisti, riteniamo giusta e necessaria ogni lotta di liberazione dei POPOLI dall’oppressione di chi vuole imporre forme e modi, come ad esempio è accaduto durante la lotta partigiana al fascismo o come accade per la lotta dei compagni Curdi in Rojava, che combattono (unici al mondo) realmente l’ISIS (che è comunque uno Stato) e contestualmente (da trent’anni) combattono contro quegli Stati (Iraq, Turchia e Sirya) che tentano in tutti modi di schiacciarne la libertà arrivando a negare la storia per non riconoscerne l’esistenza.
Riteniamo quindi che chiunque impugni un’arma (e anche un manganello lo è) ordinato di farlo non meriti rispetto e lo faccia verso di noi, in ogni luogo e in ogni tempo.
E vivendo qui ed oggi siamo convinti che i diritti sono figli solo della cultura e si acquisiscono solo con la lotta, e le che le canzoni e i concerti sono solo uno strumento utile a sostenerla e a raccontarla.
Partecipiamo a questa manifestazione quindi per portare questo punto di vista, sicuri che finquando la lotta a questo stato di cose non sarà quotidiana e l’illusione democratica e la fiducia nello Stato o la sua paura albergheranno nel profondo del nostro agire, giornate come questa non potranno che essere un momento ricreativo funzionale solo a spolverare le nostre coscienze.

Circolo Culturale Anarchico G. Fiaschi – Carrara
Gruppo Germinal FAI – Carrara
USI-AIT sezione Carrara

Il carcere e il suo mondo. Riflessioni per una società senza gabbie (di Massimo Passamani)

Posted in Comunicati on 29 agosto 2012 by circoloanarchicogfiaschi

Loro lo incarcerano e noi ne diffondiamo i testi…

In solidarietà ai compagni di Rovereto e Trento arrestati, indagati e perquisiti nel corso dell’ennesima operazione repressiva (denominata Ioxididae, ovvero zecca in latino) posta in essere dalla Digos di Trento, su mandato della Procura di Trento, lo scorso 27 agosto.

Circolo Anarchico Gogliardo Fiaschi – Carrara

Questo testo è la trascrizione della conferenza dal titolo omonimo tenuta da Massimo Passamani a Rovereto il 5 dicembre 2000. La serata sul carcere faceva parte di tre incontri sul controllo sociale e i suoi nemici. Le altre due conferenze del ciclo di incontri vertevano sulle biotecnologie e sulla criminalizzazione degli immigrati.

Il carcere e il suo mondo

Riflessioni per una società senza gabbie

Qualche parola prima di entrare nell’argomento di questa sera: il carcere e il suo mondo. Innanzitutto, non sarà una riflessione di taglio storico, su quelle che sono le cause storiche del carcere, perché su questo argomento ci sono già molti libri che fanno ormai addirittura parte della normalità accademica; ci sono fior fior di tesi di laurea sul carcere, tanti testi che dimostrano il legame stretto che esiste fra la nascita e lo sviluppo del capitalismo e la nascita e la trasformazione del carcere, quindi il rapporto tra fabbrica, clinica, prigione e così via. Testi più o meno approfonditi che esistono in quantità abbondanti, talvolta piuttosto interessanti e rispetto ai quali non avrei molto da aggiungere. Quindi non è un taglio di quel tipo che mi interessa: chi si aspetta una conferenza di questo tipo penso che rimarrà deluso. E anche sul rapporto tra il carcere e la società di oggi, cioè su tutto quel sistema sociale che ruota attorno alle prigioni, anche su questo la riflessione sarà piuttosto sbrigativa, non sarà un approfondimento specifico. Quello che mi interessa, invece, è una riflessione di tipo etico, intendendo per etica un modo di essere, un modo di abitare e un modo di autodeterminarsi, cioè di scegliere gli strumenti e le finalità dei propri rapporti. Quindi un concetto di etica che assume in sé le due accezioni del termine, cioè l’etica come dimensione individuale (quell’insieme di valutazioni che ogni individuo dà circa le proprie scelte, il senso della sua vita, dei suoi rapporti, eccetera) e anche una dimensione per così dire collettiva, cioè relativa a quello spazio in cui queste scelte, queste valutazioni, questi rapporti si realizzano, si modificano. Due accezioni che coesistono nelle parole stesse che utilizziamo per esprimere questi concetti. Sia etica sia morale, infatti, rinviano a un concetto di costume, di norme sociali, di genius loci, cioè di usi legati a una determinata zona; allo stesso tempo, e sempre di più nell’ultimo secolo, il concetto di etica rinvia a qualcosa di profondamente individuale, di singolare e attinente all’unicità di ogni individuo. Questi aspetti saranno, penso, copresenti all’interno di queste riflessioni. Riflessioni piuttosto rapide, perché l’inventario delle questioni, dei problemi è molto ampio e io non ho nessuna pretesa di esaurire gli argomenti.

Quattro punti su cui riflettere, niente di più. La domanda fondamentale, quella che tutti i vari libri eludono sempre, lasciano ai margini oppure tendono a confondere in modo più o meno efficace, questa domanda radicale suona così: se il carcere significa punizione, castigo, pena, evidentemente fa riferimento alla trasgressione di una determinata regola (infatti la punizione interviene nel momento in cui la regola viene trasgredita, violata). Ora, la trasgressione della regola rinvia a sua volta al concetto stesso di regola, e cioè a chi decide – e come – le regole di una società. Questa è la questione che i vari operatori del settore, gli esperti non affrontano mai. Questa è la questione che contiene tutte le altre e che se sviluppata fino in fondo rischia di far crollare tutto l’edificio sociale e con esso le sue prigioni. Chi decide, e come, le regole di questa società? È palese che tutte le chiacchiere che vengono raccontate sul potere del cittadino (“il cittadino, questa cosa pubblica che ha soppiantato l’uomo”, diceva Darien), sulla partecipazione diretta, si rivelano sempre di più per quello che in sostanza sono, cioè menzogne. A decidere in questa società e in tutte le società basate sullo Stato, sulla divisione in classi, sulla proprietà, è una ristretta minoranza di individui i quali si autonominano rappresentanti del “popolo” e che impongono, sulla base di determinati poteri esecutivi (coercitivi), le loro regole. Questa definizione piuttosto generica fa subito notare che regola e legge, accordo e legge, non sono sinonimi. La legge non è una regola come le altre, è un modo particolare di concepire e definire la regola: la legge è una regola autoritaria, è una regola coercitiva, imposta per di più da una ristretta minoranza. Ora, è possibile concepire un modo completamente diverso per definire le regole, oppure, detto diversamente, per prendere degli accordi. Quindi, se non c’è coincidenza fra accordo e legge, la questione radicale è: come può un individuo o un insieme di individui essere punito in base a regole coercitive, quindi leggi, che non ha mai sottoscritto, che non ha mai liberamente accettato, che non ha mai stabilito? Anche questa è una domanda estremamente semplice, ma che non viene mai posta.

Ancora prima di porsi l’interrogativo di cosa significa concepire i rapporti fra individui in termini di punizione, castigo, pena; ancora prima di porsi questa domanda, bisogna chiedersi se è legittimo, giusto, utile, piacevole che un individuo, un insieme di individui, siano repressi, puniti, rinchiusi, torturati per la trasgressione di norme che non hanno mai concepito né sottoscritto. È questa la questione fondamentale a cui si tratta di trovare risposta, una risposta che è sì teorica, ma che deve farsi poi spazio nella pratica. Ora, evidentemente, nel modo stesso in cui pongo il problema in controluce si può notare come io penso di affrontarlo.

Il libero accordo è la possibilità e la capacità che vari individui, più o meno numerosi nel loro associarsi, hanno di stabilire in comune determinate regole per realizzare le loro attività, attività di cui controllano le finalità e gli strumenti. Senza questo controllo delle finalità e degli strumenti del proprio agire non esiste nessuna autonomia, che è appunto la capacità di darsi le proprie regole. Esiste allora il dominio, l’essere diretti da altri, quindi lo sfruttamento. Proprio perché questa società non si fonda sul libero accordo, quest’ultimo si sviluppa solamente all’interno di piccoli gruppi dove esiste la consapevolezza della possibilità di avere rapporti di reciprocità, di libertà, quindi senza forme coercitive; ma al di là di piccoli gruppi che, in modo conflittuale rispetto alla società, cercano di vivere in questo modo, all’interno di questo ordine delle cose non esiste una simile possibilità, perché appunto viviamo in una società fondata sulla divisione in classi, sul dominio e sullo Stato che di questa divisione in classi e di questo dominio è in qualche modo il prodotto e il garante. Allora si capirà perché questa società ha come suo centro la prigione, si capirà perché e per chi esiste questa prigione. Ed è proprio partendo da questa riflessione che si può cogliere il problema della punizione, quindi il problema del diritto e, ancor più nel concreto, di quel codice penale su cui i giudici fondano le loro sentenze che chiudono a chiave uomini e donne in ogni parte del mondo, su cui i poliziotti trovano l’autorità per arrestare, i secondini per sorvegliare, l’assistente sociale del carcere per invitare alla calma e alla collaborazione, il prete per trovare materia funzionale alle sue prediche sul sacrificio, sulla rinuncia, sulla colpa (tanto per citare alcuni di coloro che garantiscono questo sistema sociale). Partendo da questa riflessione ci si può rendere conto che all’interno della presente società il carcere è un problema ineliminabile, perché il problema del crimine, cioè della trasgressione delle norme coercitive (le leggi) è un problema fondamentalmente sociale. Per dirla diversamente: finché esisteranno i ricchi e i poveri, esisterà il furto; finché esisterà il denaro, non ce ne sarà mai abbastanza per tutti; finché esisterà il potere, nasceranno sempre i suoi fuorilegge. Quindi, rovesciando la questione, il carcere è una soluzione statale a problemi statali, è una soluzione capitalista a problemi capitalisti. Il problema del furto, cosi come di tutti quei crimini che tendono alla messa in discussione dell’ordine sociale, quindi le rivolte, le resistenze, le lotte insurrezionali, eccetera, ecco tutti questi problemi sono legati alle radici stesse di questa società. È evidente che siamo ancora nell’ambito delle domande. Le risposte possono venire soltanto da una pratica sociale di cui è possibile delineare solo e soltanto alcune prospettive. Proprio perché parlare di questi problemi cosi impostati non ci permette di uscire da quel quadro sociale al cui interno soltanto essi hanno un senso.

La storia del carcere si lega profondamente alla storia del capitalismo e dello Stato, e quest’ultima si lega profondamente a tutte le resistenze, a tutte le lotte, le insurrezioni e le rivoluzioni da parte degli sfruttati, degli spossessati di tutto il mondo per sbarazzarsi -talvolta con slanci di libertà reale e talaltre con ritorni a repressioni ancora peggiori, ancora più brutali -, per sbarazzarsi del capitalismo, del denaro, della proprietà, della divisione in classi, dello Stato. Negli ultimi due secoli, perché sostanzialmente l’origine del carcere per come lo conosciamo noi non va più indietro nella storia (non che prima non esistesse il problema dell’esclusione, del bando dalla società, o addirittura della tortura e dell’eliminazione fisica, però il luogo concreto, spazialmente definito che è il carcere non esisteva) il problema delle prigioni è stato presente in tutti i movimenti di emancipazione, di trasformazione radicale della società. È sempre stato presente nelle riflessioni e anche negli argomenti di propaganda, i quali si potevano riassumere in questo modo: se distinguiamo due tipi di crimine, (si trattava di una distinzione per amore di chiarezza, perché in realtà il contesto sociale e le sue trasformazioni sono sempre molto più complessi, molto più articolati e quindi molto più difficili da catalogare), quelli che potremmo definire di interesse, cioè legati al denaro, alla necessità all’interno di questa società di avere denaro per sopravvivere, e quelli passionali. Ora, è evidente -argomentavano questi rivoluzionari – che i primi, cioè quelli di interesse, sono profondamente legati a questa società: per cui o si immagina un mondo in cui non ci sono alcuni che accaparrano gli strumenti, le ricchezze e tutto quello che è necessario per vivere e gli altri che, spinti dal bisogno, sono costretti o a prostituirsi come lavoratori salariati o ad allungare le mani per afferrare illegalmente (dato che la legge sta dalla parte dei proprietari) le ricchezze, oppure non ci sarà mai soluzione. Per quanto riguarda invece i crimini cosiddetti passionali, che poi sono quelli più sventolati dalla propaganda dominante per giustificare il carcere: anche quelli, come gli stupri, che più offendono la coscienza di ciascuno; anche questi crimini, se noi li guardiamo più attentamente, sono profondamente legati alla società in cui viviamo, nel senso che sono il prodotto della miseria affettiva, compresa quella sessuale, dell’assenza di rapporti appaganti nella vita quotidiana, della miseria di rapporti umani in generale; sono il prodotto di tutta quella tensione, di quello stress, di quella rabbia che non vengono espressi e che ritornano, proprio come un ospite indesiderato, sotto forma di tic nervosi, sotto forma di presenza inconscia, di violenza stupida e gregaria. Anche questi fenomeni – che sono poi quelli utilizzati sempre per rendere necessario, nella mente di tutti gli sfruttati, il carcere con tutta la sua struttura sociale, che vengono utilizzati come spauracchio per far accettare la presenza dell’autorità e dell’ordine poliziesco – sono dunque profondamente legati a questa società. Negli argomenti di quei vecchi compagni, una società senza Stato e senza denaro, materialmente e passionalmente ricca, avrebbe eliminato d’ufficio i cosiddetti crimini di interesse e ridotto sempre più i cosiddetti crimini passionali. E noi?

È evidente che il concetto di trasgressione, di violazione delle norme rinvia a tutto quel pensiero filosofico, morale, giuridico, politico e così via che si è costruito all’interno di questa società e che per difendere questa società si è sviluppato, articolato, definito. Parlare di carcere, insomma, non significa soltanto parlare della regola e quindi porsi la domanda radicale che tutti eludono: chi la stabilisce, in base a quali criteri, che cosa fare per affrontare un problema come quello della sua trasgressione. Oltre a questo, bisogna chiedersi anche cosa significa proiettare un modello di convivenza, di umanità rispetto al quale poter giudicare non ortodosso, bollare in quanto ortopedicamente deviante o moralmente inaccettabile ogni comportamento, ogni scelta, ogni decisione che non si rifaccia, che non si assoggetti a quel modello. Ho usato il concetto di “ortopedia” sia perché è un concetto preciso nella riflessione dei vari criminologi, dei vari esperti in devianze, sia perché anche etimologicamente è un concetto interessante. La necessità di far camminare rettamente (questo significa “ortopedia”) rispetto ai percorsi che sono stati stabiliti dalla società, di costringere alle sue strade, alle sue mete e ai suoi ostacoli tutti gli individui, è la fonte inesauribile di tutte le gabbie. Problema della regola, dunque, problema del modello che viene ritenuto superiore agli individui concreti, che è anche un modo, questo, di crearsi recinti nella testa, per rassicurarsi di fronte all’aspetto multiforme e quindi pauroso della vita sociale. Questo modello agisce, ad esempio, nel momento in cui determinati comportamenti, che offendono profondamente il senso di umanità di ciascuno, vengono definiti inumani: basta pensare che in tedesco inumano e mostro si esprimono con la stessa parola (Unmensch). Tutto quello che è mostruoso viene definito inumano per tenerlo lontano da sé; determinati atti, determinati comportamenti sono bollati come inumani, oppure – e questo è il versante penale, giuridico – criminali.

All’interno di questa società il carcere non va visto come qualcosa di occasionale soltanto perché, in fondo, parlando della situazione italiana, su 55 milioni di abitanti i carcerati sono circa 50 mila, una cifra, questa, che potrebbe sembrare irrisoria rispetto a quello che sto dicendo. In realtà, il carcere è un dato centrale, fondamentale di questa società; esso è presente in tutta la società e non va confuso soltanto con quegli edifici che fisicamente rinchiudono determinati uomini e determinate donne. Perché è un perno fondamentale di questa società? Proprio perché la repressione di cui il carcere è l’espressione più radicale non va vista come qualcosa di distinto dal consenso forzato, da quella pace sociale su cui si fonda l’ordine presente delle cose, intendendo per pace sociale non la convivenza pacifica delle persone, ma la convivenza pacifica tra sfruttatori e sfruttati, tra dominatori e dominati, tra dirigenti ed esecutori. Ecco, la pace sociale è questa condizione che viene prodotta da organi ben precisi come la magistratura e la polizia, ma allo stesso tempo da tutte quelle istituzioni – siano esse il lavoro, la famiglia, la scuola, il sistema dei mezzi di comunicazione di massa, eccetera – che rendono impossibile o estremamente difficile ogni pensiero critico e quindi ogni volontà di trasformare radicalmente la propria vita; in breve, quella trama di rapporti, di parole e di immagini che presenta l’attuale ordine delle cose non come un prodotto storico, e dunque, come tutti i prodotti storici, modificabile, ma come un dato naturale che nessuno ha la possibilità né il diritto di mettere in discussione. Quindi, se noi vediamo il carcere (e, più in generale, la repressione di cui il carcere è il modello) come il prolungamento di quelle norme sociali che quotidianamente ci impongono una sopravvivenza sempre più priva di senso, allora vediamo che il carcere è uno spettro che viene agitato contro gli irrequieti che potrebbero in un determinato momento della loro vita decidere di farla finita con questo modo di sopravvivere, con questo modo di stare legati in società, e battersi per conquistare una libertà, una dignità differenti. Questo spettro viene continuamente agitato contro gli occhi capaci di sguardi ulteriori, di slanci oltre le gabbie sociali.

Purtroppo – ed è questo il paradosso della società in cui viviamo – questi occhi sono pochi, perché già questo desiderio di ribellarsi è uno sforzo, uno slancio che si conquista a fatica, perché a vincere, spesso, non è neanche la paura del castigo, paura che tocca solo quelli che per un motivo o per l’altro si pongono concretamente il problema di trasgredire le regole in un modo che non conviene a questa società, per tutti gli altri basta quel ricatto continuo e incessante che è il vivere civile, il vivere sociale con tutti i suoi obblighi e le sue prestazioni. Ancora prima di questa paura della punizione, cioè, la repressione preventiva è l’incapacità di immaginare una vita diversa: non avendo un’alternativa – non come modello sociale, ma come progetto di vita, di modificazione dell’esistente -; non avendo questa alternativa nella testa, non rimane che accettare questo mondo. Infatti attualmente la propaganda dominante, per farci accettare questa società, non usa quasi più gli argomenti dell’ordine giusto, accettato in base ai sacrosanti principi della proprietà, del diritto, della morale (la loro, evidentemente), ma dice più semplicemente e senza fronzoli: non esiste nient’altro. Quindi, visto che questo altro non esiste, perché o è già finito nella spazzatura della storia o è impraticabile, allora non rimane che rassegnarsi e accettare questa società. Questa condizione più che essere una condizione di consenso, intendendo per consenso un’assentire consapevole, diretto e libero a determinate situazioni, a determinati accordi, è quella di un consenso per difetto, cioè di un non-dissenso: si vive in questa società semplicemente perché non si riesce a immaginare e a praticare qualcosa di diverso. (E questo ci lega nuovamente al discorso iniziale sulla differenza tra libero accordo – condizione di reciprocità – e legge – condizione di gerarchia). Tutto quello che questa società spaccia per Progresso,per meta da raggiungere, è sempre più manifestamente impresentabile, perché i disastri prodotti da questo modo di vita (sotto forma di oppressioni, di affamamento, di catastrofi mascherate come naturali ma in realtà profondamente sociali) sono sotto gli occhi di tutti. Il potere stesso, questa megamacchina in cui la politica, l’economia, la burocrazia, il comando militare si confondono, punta oggi su un discorso catastrofista: il mondo va verso disastri consistenti, però, visto che siamo noi ad averli creati – ci dicono i suoi esperti pagati per esserlo -, siamo anche i soli a possedere le chiavi per risolverli. Cosi, all’interno di questo balletto immobile fra disastri sociali e finti rimedi, a loro volta portatori di futuri disastri, l’immaginazione viene congelata, colonizzata; nessuna alternativa è possibile e quindi tutto procede per consenso in negativo, per non-dissenso. Però evidentemente non tutti sono d’accordo con queste regole.

Se prendiamo alla lettera l’ideologia dominante, quella liberale, ci viene detto che il vivere sociale è il risultato di un contratto stipulato non si sa bene quando né da chi, comunque da generazioni passate, rispetto al quale le generazioni presenti non possono far altro che adeguarsi: già questo è piuttosto indicativo del modo di concepire gli accordi, stabiliti una volta non si sa bene da chi e che poi dovrebbero legare (la legge, appunto) per il resto del tempo tutte le generazioni future dell’umanità. Comunque queste scempiaggini sono state raccontate anche da filosofi piuttosto accreditati e quindi si dice, questo si impersonale che è tutti e nessuno, che questa società è il frutto di un contratto. Ora, è evidente che quando esistono milioni di individui (perché bisogna sempre ragionare con un occhio attento al pianeta e alla storia, dal momento che il potere vuole spingerci a ragionare in un eterno presente che non ha nessun riferimento con il passato e soprattutto ci chiude gli occhi su come funziona il modello democratico su scala planetaria) a cui si nega persino il minimo vitale, questo contratto sociale è una presa in giro assassina. Quando si parla di democrazia, non bisogna tener presente solo la televisione, gli acquisti di natale, le nuove auto e le conseguenze che tutto ciò comporta a livello sociale e anche psicologico; bisogna tener presente anche i campi di lavoro forzato in Indocina, l’affamamento delle popolazioni del sud del mondo, le guerre sparse sul pianeta, perché tutto ciò è solo la periferia delle nostre cittadelle democratiche. Lo stesso ordine capitalista democratico che assicura a determinati sudditi, in vista di un determinato sviluppo politico, economico, burocratico, un certo modo di vivere, ad altri impone di marcire nelle riserve, nei ghetti. Se ci poniamo il problema di prendere alla lettera quest’ideologia del contratto sociale -di cui le varie teorie ortopediche sono il semplice corollario – è evidente allora che per chi non ha di che vivere, per chi non è nemmeno considerato cittadino, perché non ha i documenti in regola, perché non lo fanno entrare alle frontiere, per chi è costretto in una condizione di clandestinità, di invisibilità sociale, per donne e uomini come questi (e oggi sono milioni) il presunto contratto è stato violato per sempre, dal momento che non garantisce nemmeno i mezzi di sussistenza. Ora, persino filosofi tutt’altro che libertari, tutt’altro che partigiani dell’emancipazione individuale e sociale, sostenevano che quando un contratto viene violato unilateralmente, chi ne subisce gli effetti ha tutto il diritto di andarsi a prendere quei beni, quelle ricchezze, quelle condizioni che gli sono stati sottratti; se non ha nessun accesso a questo mondo della proprietà è necessario e giusto che quel mondo lo attacchi allungando le mani sulle ricchezze, cioè rubando. All’interno di questa società, anche se numericamente il problema sembra poco consistente, perché sono in pochi tutto sommato ad essere rinchiusi, il ricatto del carcere pesa su milioni di individui. La sopravvivenza si fa sempre più precaria, basta pensare alle ragioni concrete per cui la maggior parte di quelli che finiscono in carcere sono processati e poi condannati e rinchiusi; si tratta, per la stragrande maggioranza, di piccoli reati, furti, traffici che un ordinamento legislativo diverso potrebbe domani considerare come non reati, e quindi cancellare in un sol tratto tutto quello che per decenni è stato considerato crimine. E questo alla faccia dell’universalità dei principi che dovrebbero valere in ogni luogo e in ogni epoca. Le ragioni sociali del crimine sono talmente evidenti, che i riformatori dello Stato devono far finta di metterci mano.

Ci sono stati diversi professori universitari, persone per bene, generalmente di sinistra e con ottime intenzioni pedagogiche, che hanno cominciato a parlare di abolizione del carcere all’interno di questa società. Il carcere così com’è, in fondo, alle anime pie di sinistra non piace, perché rinchiudere a chiave uomini e donne per lo più poveri è una cosa sgradevole e degradante, tanto che questi bei personaggi sono i primi a dire che la funzione rieducatrice della punizione è una manifesta menzogna, perché il carcere non ha mai rieducato chicchessia; al contrario -aggiungono – è una palestra del crimine: quelli che vi sono entrati perché non potevano o non volevano lavorare non fanno altro che organizzare meglio le loro attività criminali del futuro. Per tutti questi illuminati, quindi, il carcere è qualche cosa di spiacevole, è qualcosa che andrebbe modificato e se possibile cancellato da questa società. Evidentemente, questi professori si rendono conto che, in una società fondata su regole coercitive decise da una minoranza che domina il resto della popolazione, il problema del castigo non ha soluzione. Se il carcere potesse essere abolito, sarebbe solo per essere sostituito con altre forme più sociali, meno legate a un’istituzione totale (identificata in un edificio ben preciso, con funzionari ben precisi, eccetera), come i braccialetti elettronici alle gambe, queste catene pressoché invisibili capaci di creare una nuova figura: il detenuto sociale. Tutto ciò non fa di certo aprire il carcere né porta meno carcere nella società; semplicemente, fa diventare la società sempre più simile a un carcere. Vanno in tal senso anche le proposte di riappacificazione tra le vittime di determinati furti e i loro autori. Ad esempio, i metodi proposti nella democrazia scandinava, piuttosto progredita dal punto di vista di queste forme pulite di punizione sociale, sono del tipo: se mi hai rubato lo stereo, invece di mandarti in carcere -ospitalità forzata e forzosa che tra l’altro sono io a pagare in quanto contribuente -, mi metto d’accordo con il tuo giudice e magari una volta al mese vieni e mi rifai la facciata del palazzo, mi dai una mano a tagliare le aiuole. Queste proposte, ideate da chi è pagato dallo Stato per trovare soluzioni a quelli che sono problemi creati dallo Stato, nascondono un fatto: all’interno di questa società, il problema del carcere può essere semplicemente spostato, cioè si può trasformare sempre di più la società in un immenso carcere in un ergastolo sociale, ma non distrutto.

Esiste una differenza profonda fra la prospettiva di abolire il carcere all’interno di questa società, cosa che significherebbe rafforzare il dominio dando una vernice di rispettabilità a un ordine sociale profondamente autoritario, e quella di distruggerlo – il che significa: distruggere tutte le condizioni sociali che lo rendono necessario. Questa è una cosa completamente diversa. Paradossalmente, la sola prospettiva non utopica non è quella di pensare che possa esistere il denaro senza il furto, il potere senza le rivolte, la colonizzazione senza la resistenza; è quella di sovvertire alla radice le condizioni che rendono tutto ciò necessario, sopprimere le classi e abbattere ogni Stato.

L’ultimo punto a cui vorrei accennare, lasciandolo aperto per la discussione, è questo: cosa significa battersi ora per una società senza carcere, quindi non soltanto per distruggere le prigioni e il mondo che le costruisce, ma anche per non costruirne mai più? Significa ripensare in modo radicale non soltanto il problema della regola e dell’accordo, ma anche il problema di come far fronte alla risoluzione dei conflitti che in ogni contesto sociale – con buona pace di tutti i propagandisti socialisti e anche anarchici del passato – si verificherebbero. Se questa società, con il grado di putrescenza che ha raggiunto, non ci lascia certo essere ottimisti sulle sorti di una trasformazione radicale del mondo, ci pone il problema di come affrontare diversamente il conflitto: non più con la mentalità ortopedica (non sei d’accordo con determinate regole, non vado a rivedere le regole stesse, visto che le abbiamo stabilite di comune accordo, dico semplicemente che sei nemico di un modello, modello universalmente accettato e quindi un’altra volta coercitivo, e se non ti metto in carcere, ti metto in qualche manicomio, ti considero pazzo, ti faccio curare dalla scienza che ti rimetterà a posto). Queste soluzioni sono altrettanto autoritarie e forse ancora più totalitarie, perché se il carcere almeno considera il criminale cosciente e risoluto nella sua identità di criminale, marchiare invece chi trasgredisce le regole di questa società mostruosa come un malato che ha bisogno di cure significa non soltanto metterlo nelle mani di specialisti che lo tortureranno magari scientificamente e senza che si veda il sangue, ma significa anche considerarlo incapace di determinare per sé cos’è il giusto e lo sbagliato. Cosa significa battersi quindi per un mondo senza sbarre, cosa significa quindi distruggere il carcere, questa cosa abominevole che è chiudere a chiave degli uomini e delle donne, per non costruirne mai più? E cosa significa legare questa prospettiva di distruzione del carcere, in quanto distruzione della repressione, della pace sociale, del Diritto, alle lotte attualmente esistenti nelle carceri? Che cosa vuoI dire, in questa prospettiva di distruzione del carcere, essere solidali con chi, attualmente detenuto, si batte evidentemente non per distruggere tutte le prigioni (perché questa sarà sempre il desiderio di una minoranza), ma per attenuarne gli aspetti repressivi? Cosi come non esistono molti individui all’interno della società a voler cambiare radicalmente le regole del gioco, non si vede perché, per il semplice fatto di essere tali, i detenuti dovrebbero raggiungere chissà quale consapevolezza per cambiare le sorti proprie e altrui. E qui il problema si allarga di nuovo: le prigioni non sono nient’altro che il concentrato di questa società, dei suoi spazi, dei suoi tempi, del suo lavoro, delle sue concezioni urbanistiche (basta pensare a tutti quegli edifici che, nell’arco di mezzo secolo, sono stati via via manicomi, scuole elementari, carceri, ospedali senza che si modificasse in nulla la loro struttura, cosa che la dice lunga sul mondo in cui viviamo …). Il carcere è ovunque, basta guardarsi attorno: telecamere di sorveglianza ad ogni angolo, esattamente come quelle che ci sono nelle carceri, controllo informatico sempre più incessante, sempre più capillare nella sua penetrazione sociale, senza dimenticare le sempre attuali divise di carabinieri e polizia, come quelle qua fuori stasera. All’interno di questo mondo che è sempre più simile a una prigione, cosa significa immaginare addirittura una società senza gabbie e cosa significa, in quanto detenuti sociali, essere solidali con altri che sono detenuti in senso stretto? Questi si battono per dei miglioramenti parziali, così come nel resto della società le lotte partono quasi sempre su basi rivendicative di miglioramenti limitati. Ciò che fa la differenza, sono i rapporti che nascono nel corso stesso della lotta, e i metodi che si usano. Per il resto, la banalità delle loro cause immediate, diceva il filosofo, sono sempre state il biglietto da visita delle insurrezioni nella storia.

Attaccando i mille nodi che fanno funzionare il carcere e il suo mondo, noi stessi abbattiamo sempre più le mura di quel carcere personale che è la rassegnazione.

Solo alcuni buoni interrogativi, come vedete, in un’epoca in cui abbondano le false risposte.

Massimo Passamani

5 dicembre 2000

Ardire

Posted in Comunicati on 26 giugno 2012 by circoloanarchicogfiaschi

Ardire?

Ebbene sì:

«Ardire per la nostra dignità rivoluzionaria!

Ardire per conservare le tradizioni della nostra storia!

Ardire per valorizzare la nostra volontà realizzatrice!»

Severino Di Giovanni

Ogni qual volta lo Stato si sente minacciato nelle sue prerogative di controllo assoluto dei corpi e addomesticamento totale delle menti, colpisce e reprime coloro che reputa – a ragione – i suoi principali e più acerrimi nemici: gli anarchici. Nella notte tra il 12 e il 13 giugno scorso, una vasta operazione dei R.O.S. (spudoratamente appellata, da lor signori, “ardire”) è stata dispiegata contro numerosi compagni anarchici in tutta Italia. Risultato: più di 40 perquisizioni, 24 compagni indagati, 10 arrestati (di cui due, Marco Camenisch e Gabriel Pombo da Silva, già da lungo tempo in galera). Le accuse mosse sono, ovviamente, le solite: associazione sovversiva, attentati effettuati in passato con materiale esplodente, e – dulcis in fundo – addirittura l’aver osato esporre degli striscioni, l’aver vergato delle scritte su dei muri e l’aver danneggiato un bancomat (ah… il caro e sempre osannato Dio denaro). Incredibile ma vero, le prove a carico raccolte sono state: pezzi di fili elettrici, delle normalissime lampadine, delle mollette per stendere i panni… e l’onnipresente “materiale documentario”, giornali, opuscoli e volantini vari!

Il giorno seguente, tutti i media nazionali si sono prodigati nel dare ampio risalto a tale operazione repressiva, sbattendo, come al solito, il mostro di turno – in questo caso l’anarchico – in prima pagina. Addirittura, in televisione è apparso il generale dei carabinieri Ganzer (il quale, detto en passant, è stato, neanche tanto tempo fa, condannato dal Tribunale di Milano a 14 anni di reclusione per falso, peculato, spaccio di droga e traffico internazionale di armi) che intervistato dal pennivendolo di turno, in qualità di direttore esecutivo della suddetta operazione, in alta uniforme, e indossando un copricapo veramente ridicolo nella sua sproporzionata altezza, ha rilasciato la seguente arrogante, ma soprattutto delirante e patetica, dichiarazione: «Con l’operazione di oggi, abbiamo certamente scompaginato l’organizzazione denominata Federazione Anarchica Informale».

E’ ovvio che dopo l’azione contro il dirigente dell’Ansaldo Roberto Adinolfi e il successivo tam-tam mediatico, le istituzioni, in difesa dei propri privilegi, e per mostrare una volta per tutte ai propri sudditi che qualsiasi attacco portato al Leviatano, in qualsiasi modo esso avvenga, non potrà mai rimanere impunito, una risposta la dovevano pur dare, e questa è puntualmente arrivata, nell’unico modo in cui il potere sa muoversi: perquisendo, sequestrando, arrestando. In una sola parola: reprimendo e soffocando qualsiasi pur minimo anelito alla libertà.

Ma è altrettanto ovvio che tale operazione – come tutte quelle che sono state imbastite nel passato – non potrà mai uccidere ed eliminare definitivamente quello stesso anelito alla libertà che è presente in ognuno di noi. Perché finché nel mondo esisteranno gli sfruttatori e gli oppressori, ci saranno sempre e ovunque degli sfruttati e degli oppressi pronti a insorgere contro di loro.

Che la nostra rabbia e il nostro odio divampino radiosi tra i signori delle manette e i servi del potere!

Piena e totale solidarietà ai compagni perquisiti, indagati e arrestati!

Vicinanza assoluta di affetti e di sentimenti con chi porta nel proprio cuore un mondo nuovo!

Libertà per tutti/e!

Circolo Anarchico “Gogliardo Fiaschi” – Carrara

Ciclo Colonialismo e Post-colonialità

Posted in Circolo on 13 Maggio 2012 by circoloanarchicogfiaschi

Sabato 19 maggio 2012
via G. Ulivi 8 Carrara

Presentazione del libro “Difendere la razza. Identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini” (2009) di Nicoletta Poidimani
Sarà presente l’autrice

Nicoletta Poidimani, laureata in filosofia e libera ricercatrice, da anni si occupa di studi e politiche di genere

Questo libro nasce da una ricerca sulla genealogia della mentalità razzista in Italia: un lavoro di tessitura fra la storia dell’impresa coloniale nel Corno d’Africa, i dispositivi dell’immaginario di conquista, le biopolitiche di Mussolini nell’Impero e in territorio nazionale.
L’originalità di questa ricerca consiste nell’evidenziare, anche da una prospettiva di genere, il convergere di diversi piani e codici comunicativi, così come diverse discipline e saperi, nella costruzione della ‘razza italiana’. La bibliografia utilizzata è, di conseguenza, ampia e variegata: i testi di storia del colonialismo fanno da sfondo ai discorsi su ‘razza’ e genere contenuti in testi medici, giuridici e antropologici, così come nei romanzi, nei quotidiani e nelle riviste di divulgazione popolare.
Oggi i vecchi e sperimentati dispositivi razzisti e de-umanizzanti formatisi in quegli anni si stanno riattivando sulla pelle di donne e uomini migranti e molte parole, proprie dell’ideologia di quell’epoca, si ripresentano nel linguaggio quotidiano, così come torna a riaffacciarsi sempre più prepotentemente una concezione della donna e della famiglia di stampo clerico-fascista. L’auspicio è che questo lavoro possa essere non solo un contributo al contrasto critico per conoscere questa parte della storia italiana e prevenire la ricaduta nell’orrore della barbarie fascista.

Prossimi appuntamenti:

23 maggio 2012 ore 18.00
Proiezione dei documentari “Hotel Abissinia” di Patricia Plattener (2000) e “Good Morning Abissinia” di Chiara Ronchini e Lucia Sgueglia (2004)

1° giugno 2012 ore 18.00
Presentazione del libro “Le ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazione postcoloniale” di Sabrina Marchetti (2011). Saranno presenti l’autrice e Ainom Maricos (Movimento cittadini dal mondo)

Fóc al Fóc – Goliardo Fiaschi: una vita per l’anarchia

Posted in Circolo on 27 aprile 2012 by circoloanarchicogfiaschi

Fóc al Fóc era un modo di dire che Goliardo usava spesso. E nell’immaginario di chi lo ha conosciuto lo caratterizza quanto Puzzapé.

Era il suo “grido di battaglia” e per questo motivo abbiamo scelto di intitolare la sua biografia Fóc al Fóc.

In realtà si tratta di una autobiografia, da lui raccontata e registrata in nove cassette, che ripercorre gran parte della sua vita partendo dall’esperienza partigiana a Carrara e nel modenese, il dopoguerra a Carrara, e quindi le vicissitudini spagnole e italiane della carcerazione. Il racconto termina con la sua definitiva scarcerazione avvenuta il 29 di marzo del 1974, a Lecce.

È uno spaccato di vita drammatico e, talvolta, avventuroso nel quale si ripercorrono i dolori di un ribelle che lotta contro la tirannia e paga in prima persona le proprie scelte. Una vita dedicata a un ideale che lo porterà a conoscere le aberrazioni più spaventose del genere umano. Ma nonostante questo, mai traspare nel racconto pessimismo e sfiducia. Anche nei momenti più duri della sua, se così possiamo chiamarla, avventura, la dignità e l’orgoglio che lo hanno sempre distinto non vengono meno.

Un racconto semplice, lineare di chi troppo presto si è trovato di fronte alle avversità della vita e che è cresciuto portandosi dentro una storia immensa saputa vivere con l’umiltà dei grandi. 

Manifestazione Nazionale per Franco Serantini

Posted in Uncategorized on 7 aprile 2012 by circoloanarchicogfiaschi

A quarant’anni dalla morte di Franco Serantini l’assemblea degli Anarchici Toscani ha deciso di organizzare a Pisa, per il 12 maggio, una manifestazione nazionale anarchica.
Oggi pi
ù che mai è doveroso riprendersi le piazze e le strade della città con un corteo, forti anche delle ragioni e delle idee per cui Franco lottava.

SABATO 12 MAGGIO

PISA PIAZZA SANT’ANTONIO ORE 15

Franco Serantini faceva parte del gruppo anarchico Pinelli di Pisa, che aveva sede in via San Martino. La volontà di lottare per una società di liberi e di eguali lo univa ai compagni e a a tanti altri giovani proletari, in una fase di grande fermento sociale; era sicuramente una pagina nuova della sua giovane e difficilissima vita, che aveva conosciuto l’abbandono, l’orfanotrofio e la durezza delle istituzioni.
L’impegno di Franco si dispiegava nelle iniziative sociali di quegli anni, come l’esperienza del “mercato rosso” nel quartiere popolare del CEP, ma anche, in senso specificamente politico, nella campagna contro la strage di Stato, per la difesa della memoria di Pinelli, per la scarcerazione di Valpreda e di altri compagni. Dopo le grandi lotte del ’68 e del ’69, padroni e fascisti cercavano di rialzare la testa rispondendo con la strategia della tensione e sferrando una feroce campagna antianarchica.
Il 5 maggio del 1972 Franco partecipa ad una presidio contro il comizio del fascista Niccolai.
Il presidio viene duramente attaccato dalla polizia. Franco viene circondato sul Lungarno Gambacorti da un gruppo di poliziotti del I Raggruppamento celere di Roma, e pestato a sangue. Portato nel carcere Don Bosco, Franco sta male, ma le sue condizioni vengono ignorate, nonostante si aggravino rapidamente. Dopo due giorni di agonia e coma, Franco muore. E’ il 7 maggio 1972.
I suoi funerali vedono una grande partecipazione popolare.
Anno dopo anno, si susseguono le manifestazioni di piazza in sua memoria. Inoltre, a Torino gli viene dedicata una scuola, a Pisa una lapide viene collocata all’ingresso di palazzo Thouar, dove Franco visse nell’ultimo periodo della sua vita. Negli anni nascerà in città la biblioteca a lui intitolata, e nella piazza S. Silvestro, nota a tutti come piazza Serantini, verrà posto un monumento dedicato a Franco, dono dei cavatori di Carrara.
In una situazione sociale e politica come quella che stiamo attraversando, in cui aumenta la stretta della repressione, in cui si giunge persino a parlare di leggi speciali contro gli anarchici, sentiamo la necessità di unirci in un momento di lotta comune.
Per questo gli Anarchici Toscani invitano tutti i compagni  a partecipare a livello nazionale alla manifestazione del 12 maggio.
Una manifestazione che porterà in piazza non solo una parte della storia del Movimento Anarchico, ma  anche un aspetto importante della memoria della città di Pisa.
A 40 anni di distanza da quei fatti siamo nuovamente di fronte ad un attacco feroce da parte dello Stato e dei suoi apparati repressivi contro ogni manifestazione di dissenso.
Dai recenti  arresti ai danni dei compagni e delle compagne del movimento NO TAV che da venti anni si oppone alla costruzione dell’alta velocità in val di Susa, passando per gli innumerevoli episodi di repressione e  costante minaccia che gli apparati repressivi operano, ormai quotidianamente, nei diversi contesti di lotta. E accanto alla repressione attuata con manganelli e lacrimogeni, quella pervasiva e diffusa del controllo sociale contro tutti coloro che muovono una critica radicale al paradigma dominante e desiderano sperimentare la praticabilità di un metodo e di un agire basati sulla libertà, sulla giustizia sociale, sull’eguaglianza reale e soprattutto sulla solidarietà.
Perché tutto questo è pratica rivoluzionaria.
La repressione ed il controllo sociale si realizzano massimamente nelle istituzioni totali e nelle strutture detentive. Ecco dunque le politiche razziste e la reclusione e deportazione dei migranti in istituzioni repressive come i CIE; ecco la recrudescenza neofascista, alimentata dalle istituzioni, dalla chiesa, dai padroni. Una violenza che si scatena, come nei casi di Torino e di Firenze, ora contro i rom, ora contro lavoratori senegalesi, ora contro qualsiasi settore sociale marginale.
Si cerca di  dividere il fronte degli sfruttati, sempre più esteso a causa degli attacchi alle generali condizioni di vita, alimentando l’odio dello straniero e la rottura di meccanismi di solidarietà.
In questo contesto, per i governi risulta fondamentale rafforzare il razzismo e il fascismo.
Si rende quindi necessario oggi come 40 anni fa combattere con la solidarietà ogni forma di fascismo, razzismo ed esclusione. Per una società che spezzi le catene dei confini fisici e mentali che attualmente ci vengono imposti ed entro i quali ci vogliono costringere.

Facciamo appello a tutti coloro che vorranno scendere in piazza per ricordare Franco Serantini, anarchico, rivoluzionario.
Facciamo appello a tutti coloro che vorranno scendere in piazza contro la repressione, contro il razzismo, contro ogni fascismo.

Per una società di liberi e di eguali.

Anarchici Toscani

per contatti e adesioni: anarchicitoscani@autistiche.org

Perché diciamo No al TAV

Posted in NoTav on 6 marzo 2012 by circoloanarchicogfiaschi

Quello che segue è il testo del libretto “Perché diciamo No al TAV” autoprodotto dal Comitato NoTav di Carrara. Sono alcuni punti estratti dalle “150 ragioni contro la Torino Lione” 

IL TAV TOCCA ANCHE TE

Un centimetro di TAV costa 1200 euro.
Un costo enorme per un’opera inutile.
Si taglia la sanità, si tagliano i servizi sociali, le scuole pubbliche sono sempre più povere, le linee ferroviarie per i lavoratori sempre più disastrate e disagiate.
La lotta della Valsusa che dice NO a questo spreco è anche la nostra lotta.
Lo spreco del TAV riguarda tutti noi.
Ciò che è avvenuto ieri in valle è il risultato di una gestione politica della cosa pubblica che non tiene in minima considerazione la volontà del popolo.
Un popolo ridotto a risorsa da spremere e sfruttare.
Una informazione asservita a questo potere sta ignobilmente diffondendo una versione che torna ai giochi di comodo.
La violenza repressiva scatenata negli anni di lotta NoTav non ha eguali nel nostro paese e tutto per distruggere e alienare un dissenso che parimente non ha eguali nel nostro paese. Un dissenso legittimo, ma non accettato da chi vede nel progetto una enorme fonte di guadagno (più o meno lecito).
Noi siamo di fianco ai valsusini che lottando perché la TAV riguarda anche noi.

Comitato NoTav Carrara

 

PER IL TIPO DI PROGETTO

Il progetto della nuova linea ferroviaria Torino Lione è un caso esemplare di questo tipo di infrastrutture: perché non ha i dati che la giustifichino, perché ha effetti che sono addirittura controproducenti, e perché è pesantemente dannosa: sia per gli effetti diretti sull’ambiente di vita, che per l’enorme spreco di risorse che sono sottratte alle ferrovie, alle necessità dei cittadini. Infine perché è inutile dal momento che il tunnel attuale è assolutamente moderno e non ha vincoli.
La spesa per opere inutili danneggia tutta l’economia della nazione. Le imprese emigrano verso paesi stranieri che hanno strutture per i trasporti decisamente inferiori alle nostre, perché l’Italia con questi sprechi si priva delle risorse per rilanciare l’occupazione e per ridare competitività alle imprese attraverso la innovazione tecnologica e la diminuzione del carico fiscale. Di conseguenza i miliardi di euro, che vengono sottratti, penalizzano l’economia italiana.
La nuova linea ferroviaria non sarebbe una Alta Velocità pas­seggeri, perché, essendo quasi totalmente in galleria lo stesso studio di VIA presentato dalle Ferrovie italiane, ammette che la velocità massime saranno di 220 km/ora, con tratti a 160 e 120 Km/h in corrispondenza di Orbassano. Il guadagno di tempo della nuova linea passeggeri, sempre secondo il dossier RFI, sarebbe di soli 60 minuti (1 ora e 40 contro 2 ore e 40): e per questo modesto risultato, Italia e Francia, dovrebbero spendere circa 35 miliardi di euro. Inoltre i passeggeri sono dimez­zati e la connessione tra Parigi e Milano, via Torino, non appare più economica (punto 35), e RFI ha dichiarato, nel gennaio 2011, che, in futuro, sceglieranno il Sempione.
Ma non sarebbe neppure di una linea merci ad Alta Capacità.
Dovendo ospitare treni ad Alta Velocità e treni merci ordinari, che hanno differenze di velocità di 120 Km all’ora, sullo stesso binario, in un tratto di gallerie in cui, per almeno 80 Km, tra St Jean de Maurienne e Chiusa, i treni veloci non potrebbero superare tutti i treni merci che hanno davanti. La capacità della linea si ridurrebbe di oltre un terzo per l’intervallo di 20-25 minuti che sarebbe necessario davanti ad ognuno dei 24 Treni ad Alta Velocità al giorno, che sono previsti dal modello di esercizio e renderebbe possibile il transito di 250 treni al giorno, che sono un poco di più della capacità della linea di valico attuale (180 treni al giorno per le ferrovie italiane, ma 220 treni per il Gottardo, che è analogo), e sostanzialmente lo stesso rispetto alla attuale fer­rovia di bassa valle.
Nel decennio tra il 2000 ed 2009 prima della crisi, il traffico merci dei tunnel autostradali del Frejus e del Monte Bianco, insieme, è crollato del 31%. Nel 2009 è stato di solo 18 milioni di tonnellate, come 22 anni prima. Presi da soli, il Frejus, nel 2009, era a 10 milioni di tonnellate, come nel 1993; il Monte Bianco ai livelli degli anni ‘70. La punta massima era stata tra il 1994 ed il 1998.
Nello stesso periodo si è dimezzato anche il traffico merci sulla ferrovia del Frejus, mentre la Dichiarazione di Modane, sottoscritta nel 2000 dai ministri dei trasporti italiano e francese, prevedeva che, nello stesso periodo, raddoppiasse. La diminuzione è stata largamente indipendente dai lavori di ampliamento del tunnel esistente, perché era cominciata due anni prima dell’inizio cantieri, e continua a lavori terminati. Il traffico merci ora è ben al di sotto al livello dei 5 milioni di tonnellate a cui era 50 anni fa.

PER IL COSTO INSOSTENIBILE

Per la parte comune italo-francese, che comprende il tunnel di base, il dossier presentato alla Unione Europea nel 2007, che costi­tuisce ancora oggi il documento più attendibile, perché è stato fir­mato dai ministri delle infrastrutture italiano e francese, e validato dai tecnici di Bruxelles, ha preventivato il costo di 13,950 miliardi di euro, in valuta 2006, ed in “euro correnti”, cioè comprensivi degli oneri finanziari che si formano durante l’arco dei lavori. Il costo dato da LTF alla presentazione del progetto nell’agosto 2010 è stato di 10,5 miliardi più IVA ma, a settembre 2010, una presentazione per la stampa ha fornito un costo a carico dell’Italia, di 8,7 miliardi che corrisponde alla quota italiana del 63% su di un importo di 13,950 miliardi.
Da questa cifra si può togliere al momento il contributo europeo di circa 672 milioni, per il periodo 2007-2013, il cui iter era inizia­to nel vertice di Corfu del 1994 (!), e di cui è difficile pensare che si andrà oltre un suo replicamento stante la più difficile situazione dell’Unione Europea.
Gli 8,7 miliardi di euro che l’Italia si è addos­sata con la quota del 37% per vincere i dubbi francesi, sommati ai 2 miliardi di euro di opere tecnologiche, recentemente dichiarate, porta il totale a 10,7 miliardi di euro correnti, in valuta di gennaio 2006. Nel caso della cosiddetta soluzione “low cost”, 2,4 miliardi si spostano nella parte a completo carico dell’Italia.
Per la parte solo italiana sino al raccordo di Settimo con l’Alta Velocità Torino Milano, la cui gestione è affidata a RFI, il costo ricavabile dal dossier presentato alla Unione Europea è di 5 miliardi di euro correnti, sempre in valuta del gennaio 2006. Il preventivo del progetto di RFI del marzo 2011 è di 4,4 miliardi, ma senza oneri finanziari e con l’insolita aggiunta di un margine di errore del 30%, che fa presumere il tentativo di dare una valutazione senza smentire le altre. A questi 5,7 vanno sommati 0,8 miliardi di euro di opere tecnologiche, che portano il totale della parte nazionale a circa 6,5 miliardi* Che sarebbe aggravata di 2,4 miliardi di cui circa 1 miliardo a maggior carico dell’Italia per la perdita dei contributi francesi ed europeo che valgono solo sulla tratta internazionale. Il totale dei costi preventivati a carico dell’Italia per la Torino Lione sarebbe quindi di 17 miliardi di euro in valuta 2006, come già stato calcolato a suo tempo da autorevoli economisti.
In più ci sarebbero l’adeguamento dei prezzi dal 2006, le opere non comprese nei progetti presentati, il costo delle prescrizioni, l’allungamento del periodo dei lavori per problemi tecnici ed infine l’acquisto di nuovo materiale rotabile, sia merci che passeggeri. I costi della Francia sa­rebbero complessivamente uguali, come è nello spirito degli accordi, e cioè almeno 6 miliardi di euro per la parte comune, più circa 12 miliardi per la parte nazionale francese, anche se questo calcolo è reso difficile dalla mancanza di un progetto preliminare e dall’inten­zione di costruire due linee differenti, una per i treni veloci passante a nord di Chambery ed una per le merci, passante a sud.
Gli adeguamenti dei prezzi possono riservare sorprese.
A livello di progetto preliminare, per la parte italiana della sezione comune presentata ad agosto 2010, sono stati calcolati aumenti del 5,5% rispetto alla valutazione di 4 anni e mezzo prima. Ma a livello di progetto definitivo, per la galleria geognostica di Chiomonte, presentata a maggio 2010, il solo adeguamento dei prezzi 2004-2009 ha comportato un onere del 30% in più, in cinque anni, rispetto al dato precedente! Insieme ad altre voci, il costo del progetto definitivo di Chiomonte, ha raddoppiato quello del preliminare del 2005 per Venaus, anche se LTF afferma che si tratta di un progetto talmente simile da poter essere riaffidato alla stessa associazione di imprese che aveva vinto l’appalto precedente.
Su queste basi non sembra fuori luogo prevedere un raddoppio dei costi di tutta l’opera ed ipotizzare un onere per l’Italia per la Torino-Lione di 35 miliardi di euro, più le voci che, come si è detto, sono ancora da calcolare.
I consuntivi per il progetto per la TAV, l’alta velocità ferroviaria italiana, fanno ritenere corretta tale cifra. Rispetto al 1991, la Roma-Firenze è cresciuta di 6,8 volte, la Firenze-Bologna di 4 volte, la Milano-Torino di 5,6 volte. L’onere finale ipotizzato per la Torino Lione rappresenterebbe un aumento di 6 volte rispetto ai preventivi di 20 anni fa, e quindi rientrerebbe nella norma.
Il costo al chilometro fornisce dati impressionanti: se si fa una me­dia della intera sezione comune italo-francese, dividendo i quasi 14 miliardi di euro correnti della domanda di finanziamento all’Unione Europea, per gli 81 chilometri previsti in quel progetto, si arriva a 175 milioni di euro per chilometro in valuta del gennaio 2006. Ma se si dividono gli 8,7 miliardi di euro che l’Italia dovrebbe pagare per i suoi effettivi 35,4 chilometri della parte comune, si arriverebbe a circa 250 milioni di euro correnti per chilometro! Ancor peggio se la cosiddetta soluzione “low cost” riducesse a 12 km la parte comune in territorio nazionale.
Per la sezione tutta italiana, il preventivo di RFI dà un costo di 100 milioni per chilometro, senza gli oneri finanziari e con un margine di errore del 30%, che corrisponderebbe ai 130 Milioni del dossier UE.

PER L’AMPIA CAPACITÀ DELLE STRUTTURE ESISTENTI E IL CROLLO DEL TRAFFICO MERCI

La valle di Susa ospita già la linea ferroviaria assolutamente moderna, il cui binario di salita è stato terminato solo nel 1984 e su cui, da sempre, si susseguono lavori per mantenerla ai massimi livelli di efficienza.
Sino al 2000 è stata la seconda ferrovia italiana come volume di traffico con l’estero, poi ha cominciato a calare ed a perdere posizioni, parallelamente alla crescita del Brennero e dei valichi alpini di centro e dell’est. I lavori, effettuati tra il 2002 ed il dicembre 2010, hanno riportato questa linea ai migliori livelli di funzionalità ma, nella tratta alpina, negli ultimi tre anni, viene utilizzata per meno di un quarto della sua capacità.
La nuova sagoma del traforo attuale del Frejus è P/C 45, che corrisponde ad un’altezza di 4,08 m e consente il passaggio della quasi totalità dei camion e di tutti i container, anche gli high cube marittimi purché caricati direttamente sul carro ferroviario, come è la soluzione più razionale per ridurre la tara. La nuova Torino Lione avrebbe una super sagoma di 5,20 m di altezza che consentirebbe di trasportarli per ferrovia anche se messi su di un camion, ma, a parte lo spreco di peso per la tara, l’effetto di trasferimento modale globale di questa super sagoma sarebbe pressoché inesistente, perché le ferrovie di Francia, Spagna e dell’Italia, ad eccezione dell’asse del Brennero, hanno solo sagoma P/C 45, e quindi questo tipo di trasporto di container non potrebbe proseguire oltre Torino Lione e resterebbe troppo corto per essere competitivo.
In ValSusa tra il 1973 ed il 1994 sono stati costruiti anche il tunnel autostradale e l’autostrada del Frejus. La loro realizzazione ha causato irreparabili ferite al territorio.
Un loro ragionevole utilizzo ai livelli attuali e compatibile con la tendenza dei traffici merci a scendere (- 30% in dieci anni), evita che i danni sopportati diventino inutili.
Anche perché l’efficienza energetica e l’abbattimento delle emissioni dei camion più moderni hanno annullato le differenze con la ferrovia.
Le previsioni di alluvioni di TIR attraverso le nostre le Alpi si son rivelate del tutto false» Il traffico merci dei due trafori autostra­dali del Frejus e del Bianco, presi insieme, è diminuito del 31% nei dieci anni tra il 2000 ed il 2009. La stessa percentuale si ritrova per il traforo autostradale del Frejus, preso a sé, che, anche escludendo l’anno di crisi del 2009, ha avuto un calo del 12 % nei 4 anni dal 2005 al 2008, quando la economia europea era fiorente. A livello di proiezione, questi dati equivarrebbero ad avere tra 20 anni una ulteriore riduzione del 60% del traffico merci ai trafori autostradali.
La caduta dei traffici, ha spinto l’Austria a mettere una moratoria di cinque anni sul progetto del tunnel di base ferroviario del Brennero i cui lavori dovevano iniziare nel 2011.
E la premessa ad una sua definitiva cancellazione, perché negli ambienti governativi non ci si fa illusioni su di un miglioramento della situazione e pertanto gli investimenti previsti sono stati indirizzati ad opere ferroviarie minori.
Se si è fermato il progetto sulla direttrice del Brennero, dove tra strada e ferrovia transitano ancora quasi 40 milioni di tonnellate, a maggior ragione si deve farlo sulla nostra direttrice dove, tra ferrovia ed autostrada, non si superano i 15 milioni di tonnellate.
La Torino Lione affronta il problema dei trasporti dal verso sbagliato: aumenta la capienza ai valichi, dove essa è già sovrabbondante anche per gli scenari futuri, e sottrae risorse alla soluzione del congestionamento dei nodi urbani, sia stradali che ferroviari. Lo ha ammesso recentemente (2011), anche l’amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana, Moretti, dicendo che il problema del nodo ferroviario di Milano è cento volte maggiore di quello della Torino-Lione.
Le cose non vanno meglio per il traffico passeggeri internazionale. Nel 1993, alla presentazione del progetto, i passeggeri erano 1,5 milioni, e si prevedeva che salissero ad 8,5 milioni nel 2002 grazie ad un enorme contributo dei turisti dei paesi dell’Est. Invece sono scesi a 750.000!
E quanto si vede anche sulla rete tedesca dove i 70 miliardi, spesi nelle ferrovie ad Alta velocità negli ultimi 16 anni, non hanno impedito un calo dei passeggeri del 18%. Sarebbe successo lo stesso se, in alternativa a questo indirizzo, si fosse abbattuto fortemente il costo dei biglietti? Del resto è proprio la scelta della Alta velocità come fattore di espansione del mezzo ferroviario ad essere errata.
Il trasporto aereo commise lo stesso errore 40 anni fa con il Concorde, che fii un fallimento economico, ma poi l’uso di mezzo aereo è addirittura esploso con il low cost, e non si può negare che, proprio nel decennio in cui la rete di alta velocità ferroviaria si allargata in tutta Europa, il grande fenomeno trasportistico sia invece l’aereo a basso costo.

PER LE ASSURDITÀ DEL PROGETTO DELLA GALLERIA DI CHIOMONTE

La galleria geognostica di Chiomonte – Maddalena è un controsenso: questo tipo di opere viene realizzato il più vicino possibile al tunnel in progetto per avere una migliore conoscenza delle sue caratteristiche geologiche. Qui, invece, su 7.540 metri di scavo, 4.080 metri, cioè il 54%, sarebbero in rocce molto lontane dall’asse del tunnel di base e quindi senza interesse per la progettazione; alla fine, la galleria seguirebbe il tracciato del tunnel solo negli ultimi 3.460 metri. In compenso il sondaggio si lascerebbe alle spalle gli 8 chilometri iniziali del tunnel di base, in un solo chilometro dei quali, tra il 1995 ed il 2005, la A.E.M. ha raddoppiato i tempi ed i costi della costruzione della centrale di Pont Ventoux, e di cui sarebbe stato indispensabile avere una conoscenza totale, ai fini della fattibilità stessa dell’opera. Ma anche il tunnel di Maddalena ha raddoppiato il preventivo rispetto a quello di Venaus.
LTF si è dimostrata priva di affidabilità tecnica: le tre opere di scavo che ha gestito si sono dimostrate un clamoroso fallimento.
Per la discenderia di Modane, lunga 4.000 m, ha impiegato 5 anni, che corrispondono ad una media di 2,3 metri di scavo al giorno. Per quella di La Praz, lunga 2.480 m, ha impiegato 5 anni, che equivalgono ad una media di 1,4 metri al giorno. Per quella di St Martin La Porte, di 2.280 metri, 7 anni, corrispondenti a meno di un metro al giorno. I costi di queste piccole opere hanno raddoppiato i preventivi arrivando a 356 milioni di euro, più altri 112 milioni, che erano quelli originariamente stanziati per Venaus. Il tutto per fare complessivamente 8,8 chilometri di scavo di una galleria singola. I lavori sono stati oggetto anche di gravi superficialità per la vendita da parte di un’impresa, di cemento contaminato da gessi, che ha determinato l’abbattimento di alcuni immobili. Per il tunnel geognostico che è stato spostato da Venaus a Chiomonte, LTF sostiene che si tratta solo di una variante, allungata da 7000 a 7.500 metri, ma intanto, in cinque anni, è passata da un preventivo di 65 milioni di euro per 7 chilometri a 137 milioni per 7,5, ancor prima di iniziare i lavori. Che attendibilità di tempi e costi può avere nel progettare un tunnel di 57,3 chilometri?
La Torino Lione potrebbe rivelarsi non il progetto di un’opera, ma quello di una spesa fine a se stessa.
Questo è dimostrato da episodi emersi casualmente, come il pagamento di 164.000 euro, alla società che gestisce l’autoporto di Susa, per 15 giorni di occupazione di 2 aree di 150 mq, una delle quali è un incolto, per fare due trivellazioni geognostiche, poi abbandonate. Più recentemente, appare incomprensibile la spesa di circa 9 milioni di euro per fare 153.000 metri di fondazioni di cemento del diametro di un metro e mezzo, per collocare in loco di 225.000 metri cubi di rocce estratte dalla galleria geognostica di Chiomonte.
Questa scelta mostra indifferenza per l’incremento dei costi dei lavori e per ogni valutazione di opportunità e di fattibilità, anche perché si tratta di un deposito risibile alla luce di oltre 17 milioni di metri cubi di smarino la cui gestione dovrà essere affrontata in seguito.
Il progetto della Torino Lione condotto prima da Alpetunnel e poi da LTF, ha comportato sino a dicembre 2010 spese per almeno 780 milioni di euro senza aver realizzato neppure un centimetro dell’opera progettata.
Di questi, circa 450 milioni sono stati a carico di Italia e Francia, metà ciascuno, spesi per fare i sondaggi dalle due parti e le discenderie francesi: il resto è della U.E.
L’attuale progetto in destra di Dora non è meno impattante di quello vecchio del 2003 in sinistra:
Vi è un maggior impatto su zone densamente abitate perché la linea sottopassa zone urbane di almeno tre paesi: Venaus, Mompantero, Chiusa, poi Avigliana e Torino nel tratto successivo di competen­za di RFI. La devastazione prevista allora nella piana di Bruzolo si sposta nella piana ai margini della città di Susa, dove il cantiere e le strutture accessorie dovrebbero coprire una lunghezza di tre chilo­metri, e nell’interconnessione di Chiusa San Michele; a cui seguireb­bero quelle di Avigliana, Orbassano e Torino. Il pericolo costituito dall’amianto non è stato evitato perchè, oltre al tunnel di base, c’è l’incognita delle rocce del tunnel dell’Orsiera, e la certezza di un alto livello di rocce amiantifere nella collina morenica.
Nella VIA (Valutazione d’Impatto Ambientale) del gennaio 2007 per il cunicolo di Venaus, LTF escludeva l’ipotesi di partire dal versante di Chiomonte: e scriveva che la scelta da Venaus era dovuta al fatto che quella da Chiomonte era “penalizzata dallo scavo in discesa, con rischi tecnici e costi maggiori, compresi quelli della sicurezza, e dalla mancanza di dati per il primo tratto di galleria dopo l’imbocco”. Poi la società ha scelto proprio l’ipotesi che aveva escluso e, nella VIA del 2010 per il tunnel della Maddalena, ha tolto la precedente scelta di Venaus tra le alternative con cui confrontarsi, per non doverne evidenziare i rischi ed i pericoli. Ma nascondere i problemi ora non vuol dire non doverli affrontare in seguito.

PER I DANNI ALLA SALUTE E DELLE POLVERI CHE FANNO AMMALARE

I cantieri danneggiano gravemente la salute degli abitanti:
lo stesso studio di VIA presentato per la tratta internazionale, afferma che gli incrementi di PM10 “giustificano ipotesi di impatto sulla salute pubblica di significativa rilevanza, soprattutto per le fasce di popolazione ipersuscettibili a patologie cardiocircolatorie e respiratorie, che indù cano incrementi patologici del 10%”.
In base alle statistiche attuali, questo aumento, per la zona interessata dal progetto di LTF, è stato poi calcolato in 20 morti in più all’anno. Per la sola zona del cantiere di Rivoli è stato calcolato in 3 morti all’anno. Secondo l’OMS, in uno studio del 2006: “gli effetti a lungo termine delle concentrazioni di PM10 superiori a 20 microgrammi/mq, equivalgono al 9% della mortalità degli over SO per tutte le cause”.
Per la tratta comune che comprende il tunnel di base e quello dell’Orsiera, la presenza di amianto è ammessa per i primi 420 metri all’inizio del tunnel di base, ed è poi indicata come rischio “da nullo a basso” per la galleria di base e dell’Orsiera. Per valu­tare questo giudizio occorre ricordare che questi 420 metri, a Mompantero, sono quelli dove LTF e la Regione avevano lungamente detto che non c’era pericolo e di cui, dopo i sondaggi al Seghino, si era addirittura scritto che le rocce estratte avevano escluso la presen­za di amianto.
Ora che diventano il punto iniziale dello scavo e quindi con una visibilità altissima, si è deciso di ammetterne l’esistenza in tutto il suo peso. Ma c’è da chiedersi se, nelle prossime fasi, ed in presen­za di volumi di rocce verdi meno rilevanti, ci sarà il coraggio di in­terrompere lo scavo, fare arretrare la “talpa” TBM che è lunga 200 metri, e procedere sostanzialmente a mano, tra compartimentazioni e lavaggi di ogni genere. Bisogna tener presente che, se si calcola il valore al metro dello scavo del tunnel, sulla base della enorme cifra di 14 miliardi di euro della domanda alla UE, divisi per gli 81 km del progetto allora considerato, il valore di ogni giorno lavorativo del cantiere, calcolato sulla base di un avanzamento medio di 8-10 metri al giorno, corrisponderebbe a circa un milione di euro al gior­no. In un sistema di costi fissi, come dovrebbe essere quello delle deliberazioni del CIPE, le imprese avrebbero la forza di fermare i cantieri piuttosto che cercare di nascondere la presenza di amianto ed uranio, se questa può passare inosservata? Per la parte nazionale di competenza di RFI il problema è ancora più grave perché i primi dati forniti dagli studi di VIA di RFI mostrano che il materiale di cui è costituita la collina morenica è costituita per il 42 % da pietre verdi e che il 45% di esse contiene amianto.
La presenza di mineralizzazioni di uranio (pechblenda) nell’area del tracciato del tunnel di base è una realtà: questa presenza era stata segnalata nel 1998 dalle associazioni ambientaliste, ma LTF ed i suoi consulenti l’hanno lungamente negata.
Non è vero quanto afferma lo studio di VIA che “le mineralizzazioni uranifere di una certa rilevanza segnalate in valle di Susa sono in settori non interferiti dalla realizzazione del tunnel di base Al contrario, potrebbero interessare lo scavo le vene profonde di una decina di anomalie spettrometriche riscontrate in superficie. Lo stu­dio di VIA non fa cenno ai dati rilevati da parte francese nel 1980 con la Minatome e, per la parte italiana, nel 1959 dalla Somirem e nel 1977 dall’Agip Mineraria.
Nel libro su “I giacimenti uraniferi italiani e i loro minerali”, D. Ravagnati, un esperto del settore, pubblica gli schizzi delle gallerie di esplorazione eseguite, e giudica i campioni della Valle di Susa che ha raccolto “Molto ricchi ed anche molto belli a vedersi, perché il minerale forma delle distinte vene nere”.
Nonostante l’importanza di questo fattore di rischio, sia per la salute che per la continuazione dei lavori, lo studio di VIA dedica alla “gestione di materiali radioattivi” una sola pagina, con indicazioni del tutto generiche.

Il documento integrale è scaricabile al link: http://www.pro-natura.it/torino/pdf/150ragioninotavnov2011.pdf

Altri link NoTav da cui scaricare documentazione e aggornamenti:

http://www.notav.info/
http://www.notavtorino.org/
http://www.notav.eu/
http://www.spintadalbass.org
http://www.lavallecheresiste.info/
http://www.notav-avigliana.it
http://www.ambientevalsusa.it

Troppe promesse intorno alla San Carlo.

Posted in San Carlo on 2 febbraio 2012 by circoloanarchicogfiaschi

Unione Sindacale Italiana – sezione di Carrara

Il pessimismo è una brutta disposizione dell’animo, ma l’ottimismo cieco e anche un po’ ingenuo è peggio. Sempre che di ingenuità si possa parlare.
Una decina di giorni fa, a seguito del tanto sospirato incontro tra il sindaco Pucci e la proprietà, si ebbe a leggere su un quotidiano locale (Il Tirreno, 20 gennaio 2012) che: “L’esito dell’incontro apre un concreto spiraglio nella vicenda: la disponibilità della proprietà alla ripresa della produzione è un fatto importante….”
Ma cosa era successo per motivare una simile manifestazione di gaiezza? L’amministrazione comunale era riuscita ad ottenere un incontro con la Vichi Holding, proprietaria del marchio San Carlo. All’incontro, svoltosi nella mattinata del 17, si presentò il sig. Tamburlani che si dimostrò disponibile a ogni richiesta avanzata: riprendere l’imbottigliamento e intraprendere la strada della cooperativa. Tant’è che nel primo pomeriggio si presentò allo stabilimento confermando quanto detto la mattina.
Ma già a seguito dell’incontro, l’ottimismo di cui ci si vuole ammantare in certe occasioni era venuto meno.
Due parole veloci sulla ripresa dell’imbottigliamento, nessuna, ma proprio nessuna, sulla situazione debitoria della Vichi nei confronti degli operai (TFR e tre mensilità arretrate – a oggi quattro), e solo una vergognosa proposta di cooperativa. In sostanza, il sig. Tamburlani proponeva agli operai di licenziarsi per costituire una cooperativa di lavoro a cui poi affidare il compito dell’imbottigliamento. Insomma, una bella mossa per togliersi di mezzo il fardello dei lavoratori e fuggire dalle proprie responsabilità.
Ora, se queste sono le stesse proposte discusse durante l’incontro con l’amministrazione, non vediamo proprio cosa ci sia da essere ottimisti e vedere spiragli concreti aprirsi all’orizzonte della San Carlo. Anzi, è proprio l’opposto. Le indicazioni che giungono da simili atteggiamenti fanno semmai pensare a una volontà di tirare in lungo sul problema San Carlo.
Sono passati più di dieci giorni da quell’incontro e la situazione alla San Carlo non è cambiata, la produzione non è ripresa e da quel giorno la proprietà non ha rifornito lo stabilimento di quei materiali necessari per la ripresa dell’attività. 
È decretato, la San Carlo deve morire.
Troppi sono gli interessi che girano intorno alle sorgenti e ai terreni. Le tre fonti fanno gola, lo fanno perché è un’acqua pregiata, lo fanno perché hanno una portata di tutto rispetto (30.000.000 di litri), lo fanno perché farebbero aumentare di valore qualunque azienda di imbottigliamento ne acquisisca la concessione.
La Vichi è nei guai, frode fiscale, è a rischio, e il suo ultimo interesse è probabilmente il futuro del complesso di San Carlo. Ha abbandonato tutto, disinteressandosene, probabilmente aspetta che gli operai, esausti, distrutti da una situazione di stress portato al limite, mollino: è lì che attende, fuggendo dalle proprie responsabilità.
E il paese di San Carlo, che per molto dipende dal funzionamento del complesso, è solo a combattere questa lotta.
L’acqua, anche se finora in mano a un privato, è comunque sempre un bene pubblico e l’obiettivo di qualunque amministrazione dovrebbe essere quello di farlo rimanere tale. A San Carlo questo è possibile. Lo è realizzando la cooperativa che gli operai vorrebbero fare. Ma una cooperativa seria, non quella farsa presentata da Tamburlani, una cooperativa che sia proprietaria dello stabilimento di imbottigliamento, senza il quale non potrebbe accedere alle concessioni delle sorgenti. Una cooperativa che sia vantaggio per tutti, che abbia come obiettivo la gestione oculata di un patrimonio pubblico.
Questo, però, pare non essere compreso, è c’è da ogni parte il tentativo di far fallire, ancor prima che nasca, questo progetto.
A voler essere maliziosi si potrebbe anche ravvisare un conflitto di interessi da parte dell’amministrazione nella vicenda San Carlo: le tre fonti sarebbero una fortuna per la EVAM, che vedrebbe aumentare considerevolmente la propria appetibilità sul mercato e non rischiare un ennesimo scacco come nel 2008, evitando nel contempo al comune di Massa una debacle politica, sforando il patto di stabilità, senza poi voler andare a pensare altre cose.
Poi ci sono i terreni a monte dello stabilimento. Anche lì, a voler essere maliziosi, si potrebbe immaginare qualche tonnellata di cemento con vista su quello splendido panorama che si gode da San Carlo.
Questo a voler essere maliziosi, ma noi maliziosi non lo siamo e tutto questo non lo vogliamo pensare.
Quello che è reale è la situazione attuale dei lavoratori della San Carlo, da mesi senza stipendi e senza risposte, abbandonati a loro stessi con un futuro inesistente. Quello che è reale è che esiste un’attività che potrebbe funzionare, avrebbe ordini da evadere e un enorme potenziale da sviluppare, e viene tenuta bloccata dalla cieca ingordigia dell’affarismo e della politica. Quello che è reale è che esiste un bene comune che viene utilizzato per i propri interessi e, di fatto, si impedisce che venga utilizzato in maniera socialmente corretta. Quello che è reale è la volontà degli operai della San Carlo di lottare perché tutto questo non accada e la loro tenacia e determinazione è tanta. Quello che è reale è che faranno di tutto per impedire qualsiasi sfruttamento sia della comunità di San Carlo che di un bene che sono chiamati a tutelare.
E in questo noi crediamo, ed è per questo che saremo sempre al loro fianco in questa lotta.

Perché non votiamo – Pasquale Binazzi

Posted in Astensionismo on 29 gennaio 2012 by circoloanarchicogfiaschi

I. Né eletti, né elettori.

Per quanto già molte volte, sia nelle nostre conferenze come sui nostri giornali ed opuscoli, abbiamo fino a sazietà risposto e dimostrato perché noi anarchici non dobbiamo essere né eletti né elettori, pur tuttavia i vecchi pregiudizi che annebbiano la mente di gran parte dei lavoratori, l’arte subdola di cui sono maestri i politicanti di ogni colore, ci mettono sempre nella condizione di dovere difenderci da attacchi, ora apparentemente benevoli, ora addirittura vili e triviali, coi quali lo studio degli illusi o degli intriganti cercano di menomare la propaganda nostra, affinchè non sfugga dalla loro tutela il gregge elettorale, di cui essi hanno bisogno per salire le comode e lucrose scale del potere. E lo scopo principale per cui questi uomini tanto si affannano, intrigano, corrompono, intimidiscono è per raggiungere il posto privilegiato di legislatori, mediante il quale essi possono non già rendersi interpreti della volontà di chi li elesse a deputati; ma imporre la propria e incanalare le risorse e le attività di un popolo a loro beneficio e della classe cui appartengono.
Questa è una verità troppo vecchia e resa fin troppo evidente dai fatti di tutti i giorni. Nessuno aspirerebbe al potere se questo non procacciasse dei vantaggi, dei privilegi morali, politici ed economici. Quindi il potere è per sua natura ingiusto e corruttore. Ma oltre a questa elementarissima considerazione che non può sfuggire neppure ai più bonari osservatori, ne dobbiamo fare altre ben più importanti e che sono precisamente quelle che ci fanno essere dei ferventi propagandisti dell’astensionismo nelle elezioni politiche ed amministrative. Il nostro atteggiamento e le ragioni per cui adottiamo questa linea di condotta diversificano assai dagli altri partiti o rivoluzionari o reazionari che accettano l’astensionismo, come ad esempio i mazziniani ed i clericali intransigenti. Noi non siamo astensionisti in forza di qualche pregiudiziale o perché il potere invece di avere una forma democratica repubblicana l’ha borghese e monarchica, oppure perché non è schiettamente clericale o papalina; ma perché noi siamo avversi ad ogni forma di potere costituito, perché ogni potere costituito rappresenta una sopraffazione, una violenza, un’ingiustizia.
Comprendiamo che i mali sociali si eliminano eliminando le cause che li generano, quindi logicamente siamo avversi allo Stato, qualunque sia la sua forma, perché questo rappresenta un tiranno che sta sul collo dei cittadini; un grande parassita dalle mille branche che sa tutto assimilarsi, tutto carpire senza nulla dare. Comprendiamo che accettare per principio che altri pensino per noi, studino per noi, facciano per noi è un condannarci all’inattività, è rinunciare alla nostra indipendenza, è lasciarci atrofizzare lo spirito d’iniziativa sia nel campo del pensiero che dell’azione. Un uomo, un popolo è forte, è capace di sostenere efficacemente la lotta per la vita, ed anzi riesce a trionfare sulle difficoltà che gli si parano innanzi, a misura dello spirito d’indipendenza e d’iniziativa di cui è animato. Invece la tattica elezionistica abitua gli uomini ed i popoli alla passività, tutto si limita a fare la fatica di eleggersi un rappresentante, ad accentrare così in poche mani il potere e quindi l’avvenire di un’intera nazione.
Perciò noi anarchici siamo convinti che la massima indipendenza sia dell’individuo, come di ogni singola collettività umana, sia una condizione indispensabile di rapido progresso e di sviluppo su ogni ramo di attività e una eliminazione di parassitismo e di ogni ingombrante e dannosa burocrazia. Non bisogna metter l’uomo nelle condizioni che possa diventare il padrone dell’altro uomo; non bisogna concedergli né riconcedergli un’autorità, di cui poi tutti debbano sopportare le conseguenze dannose e subire gli errori e le ingiustizie che vengono consumate in nome di un potere da noi stessi eletto. Il potere per sua natura deve sviluppare due grandi mali che paralizzano la vita di un intero popolo, e cioè l’accentramento e la burocrazia. Stabilire che a Roma si debbano discutere, approvare, dare ordini, regolare i rapporti e gli interessi che riguardano collettività che risiedono a Milano, Torino, Palermo, ecc. è quanto di più errato si possa pensare e stabilire. Tutti anche nelle più dolorose circostanze hanno potuto constatare il grande fallimento dello Stato. Infatti questo che viene costituito, secondo i suoi sostenitori, per tutelare con maggiore potenzialità, minor dispendio di forze e unità d’intenti l’interessi delle collettività che deve amministrare, in pratica ha solo saputo meritarsi la critica e l’imprecazione generale, perché invece di scongiurare dei mali, di limitare i danni con pronti provvedimenti, ha dato prova di noncuranza, di una spaventevole lentezza, causata dal suo mostruoso ingranaggio burocratico. Il recente disastro calabro-siculo informi. La logica dei fatti impone dunque di non dover dar mano ad erigere delle istituzioni, il cui esponente rappresenta quanto di male possa colpirci. Ognuno confronti il funzionamento dello Stato, che impone ai suoi rappresentanti ed esecutori l’attesa d’ordini anche nelle circostanze più gravi, col mirabile risultato che sa sempre dare l’iniziativa individuale e collettiva, ed avrà subito una dimostrazione chiara delle verità che noi andiamo da molti anni propagandando e che vengono chiamate utopie, solo perché troppo grandi e perché impongono un mutamento radicale delle attuali condizioni di cose. Tutti si devono convincere che invece dell’inutile e pesante macchina dello Stato, i popoli hanno bisogno per il loro benessere di abbattere tutti gli Stati, siano essi democratici o reazionari, per poter più presto e bene stabilire tra di loro dei rapporti di scambio rapidi, diretti e mutabili a seconda dei bisogni e delle innovazioni che vengono introdotte nelle arti, nelle scienze e nelle industrie.
Lo Stato che in tutti i paesi del mondo non sa far altro che opera paralizzatrice delle individuali energie e il grassatore delle fatiche altrui, deve essere combattuto e non aiutato, deve essere abbattuto e non modificato. Quindi, o lavoratori, quando coloro che ambiscono di diventare i monopolizzatori di tutto, sciorineranno molti sofismi e vi useranno tutte le blandizie che il loro animo d’ipocriti dominatori sa abilmente trovare, ricordatevi che voi non dovete concorrere a dare vita allo Stato; voi non dovete concorrere a nominare gli uomini che lo impersonificheranno; voi se volete far trionfare la libertà e la giustizia non dovete essere né eletti né elettori.

II. Illusioni sulla legislazione sociale

Quei repubblicani, quei socialisti e tutti coloro che nutrono fiducia sulla legislazione sociale, credono di usare contro di noi l’argomento principale quando ci dicono, quando dicono ai lavoratori che è necessario che la classe diseredata abbia in seno al parlamento – istituzione borghese – i suoi diretti rappresentanti, i suoi deputati che portino in quell’ambiente grigio la eco delle proteste e dei dolori dei poveri paria dei campi, delle miniere e delle officine. “Siamo in pochi, questi democratici politicanti dicono, perché non vi è il suffragio universale, arma potente assai temuta dalla borghesia. Aiutateci a conseguire questo diritto per tutti i cittadini, per tutti i lavoratori e noi avremo fatto un gran passo verso l’emancipazione sociale”. A parte gli esempi che si potrebbero citare di paesi dove il diritto al voto è più esteso che non in Italia; a parte i risultati incerti che si potrebbero ottenere se tutta la massa acefala potesse ancor più in modo pecorile essere guidata alle urne a compiere l’alto dovere civico!!!; a parte le ragioni d’indole morale dette nel precedente capitolo, vi è da tener conto della resistenza tenace, e nei più dei casi anche violenta, che sa usare ogni singolo privilegiato contro chi vuole strappargli una parte dei privilegi che ha saputo imporre alla grande maggioranza dei produttori con ogni sorta di astuzie e di frodi. Vi è stato un tempo in cui quando l’astuto poliziotto Giolitti amoreggiava coi generali del socialismo italiano – momento di vergognoso amplesso che essi oggi vorrebbero che fosse da tutti dimenticato e che ha provocato persino un segreto convegno a Bardonecchia fra Giolitti ed il futuro ministro Filippo Turati – allora tutti decantavano i trionfi della legislazione sociale ed i 50 milioni (!!) guadagnati dal proletariato nelle sue ultime agitazioni.
Venne la realtà cruda dei fatti a dissipare la vacuità delle parole, gli eccidi proletari imposero silenzio ai politicanti della frazione estrema, i quali di fronte all’indignazione generale dei lavoratori dovettero bruscamente troncare i loro incestuosi amori, seguire la piazza e perdere qualche seggio a Montecitorio. Anche allora, come in altre occasioni, la borghesia che si era seriamente preoccupata della rapidità ed estensione colla quale seppe il proletariato proclamare lo sciopero generale politico, e comprendendo quanto era per lei pericoloso che i lavoratori abbandonassero le vie legali ed incominciassero ad usare l’azione diretta, se la prese coi capi popolo, scagliò contro costoro tutta la sua stampa prezzolata, incitò i locandieri, gli affitta camere, la piccola borghesia, lo stuolo dei servitori delle istituzioni perché facessero vile ed assordante coro contro i lavoratori, perché avevano osato – ahi purtroppo! solo per qualche giorno – di protestare con un po’ di energia contro i sistematici assassinii di poveri affamati, di smunte donne e di miseri piccini. Anche quella misera borghesia che si compiace in tempi di bonaccia di farsi chiamare liberale, seppe con eguale veemenza e criteri reazionari condannare l’impulso generoso dei lavoratori, seppe con non minore rabbia fare pressioni contro i duci delle schiere proletarie, contro i politicanti dei partiti popolari, affinché richiamassero i ribelli alla consuetudinaria docilità e alla cieca fiducia nella legislazione sociale.
La borghesia più intelligente comprese che il concedere alla classe sfruttata qualche riconoscimento ufficiale e accettare il principio della legislazione sociale, non costituiva per essa alcun pericolo. Quello che seriamente teme e che vuole con ogni mezzo scongiurare è la sfiducia nei metodi legalitari; non vuole che si dilaghi fra la grande massa lavoratrice la fiducia nell’azione diretta, nell’azione singola, nell’azione prettamente rivoluzionaria, perché assai bene comprende che questa segnerebbe il principio della sua fine. Ecco perché noi anarchici moviamo aspra guerra ai nostri avversari che adescano i lavoratori col miraggio dei grandi (??) benefici della legislazione sociale. I poveri abbrutiti dalle fatiche, dalla miseria e dall’ignoranza ascoltano questi progettisti delle pacifiche conquiste, prendono tutto sul serio, credono che basti stabilire con un articolo di legge un miglioramento qualsiasi perché venga dopo poco attuato; imparano a venerare i loro leggiferatori come gli antichi cristiani veneravano il loro Cristo; ed intanto il tempo scorre ed i senza pane ed i senza tetto continuano la loro parte di docili macchine produttive, seguitando a produrre per altri e lusingandosi sempre di vedere spuntare per opera della legislazione sociale il simbolico e decantato sole… dell’avvenire apportatore di benessere e giustizia per tutti.
Intanto messi su una falsa via iniziano agitazioni sterili, che non danno né possono dare alcun pratico risultato, vanno dietro ora a questo ora a quell’arruffone politicante; chiedono i pochi soldi di aumento di salario, lusingandosi che tale aumento procaccerà loro maggiore benessere, mentre invece non s’accorgono che per la legge ferrea del salario, derivante dall’attuale sistema di economia politica, essi concorrono a far rialzare artifiziosamente il costo generale della vita – a maggiore vantaggio degli sfruttatori – ed essi rimangono sempre dei poveri diseredati, coloro che tutto devono pagare e che per tutti devono soffrire. Fino a tanto che rimarrà saldo come principio la proprietà privata e il salario costituirà la pietra di paragone del compenso del lavoro umano; fino a tanto che i principi della finanza saranno lasciati i padroni delle ricchezze ed i monopolizzatori di tutti i prodotti, saranno pure i trionfatori del potere, gli alleati, i protetti e gli ispiratori dello Stato e della Chiesa, ed ai lavoratori, ad onta delle apparenti concessioni e miglioramenti, rimarrà soltanto quanto loro necessita per non morir di fame. I pingui e tristi eroi dell’oro cedono soltanto quando sono costretti a farlo, e a tutta quella gente che s’illude ed illude di poter armonizzare il capitale col lavoro, non potrebbe danneggiare maggiormente gli interessi dei non abbienti.
Si prova un profondo disgusto a vedere della gente che vorrebbe passare per sincera e per chiaroveggente, dimenticare i punti sostanziali della questione sociale e per amore di un vile seggio nelle amministrazioni pubbliche o al parlamento smorzare ogni ardore giovanile, soffocare ogni impeto generoso, e, per rendersi accetti a tutti gli elettori delle diverse graduazioni politiche e sociali, smussare tutte le angolosità del proprio pensiero, e anzi fare dei veri sforzi per renderlo incomprensibile e accettabile alla massa amorfa, che non sa pensare né vuole fare sforzi per comprendere. E più disgusto suscitano quei giovani, che dicono di appartenere alle file dell’avanguardia del socialismo, quando si vedono prendere parte attiva agli ibridi connubi ed affannarsi per andare alla ricerca di un candidato qualsiasi, perché questi si prenda il disturbo di fare qualche piccola promessa e qualche insignificante dichiarazione di fede incerta. No, in questo caso meglio è trincerarsi nel silenzio, se non si sa o non si vuole risvegliare l’animo sopito del popolo. Se essi non vogliono essere i pionieri di ardenti verità, se non vogliono essere i pugnaci combattenti contro le cattive presenti istituzioni e conto uomini corruttori e corrotti, almeno non partecipino agli intrighi, abbandonino il popolo a se stesso piuttosto che ingannarlo, piuttosto che trascinarlo in vie contorte che lo fanno allontanare dalla soluzione del tormentoso problema sociale. Se invece veramente amano il popolo, se vogliono educarlo, incoraggiarlo e consigliarlo, essi devono rimanere col popolo e fra il popolo. Da questo trarranno sempre novella audacia ed eviteranno così il pericolo di diventare le giudiziose scimmie ammaestrate del baraccone nazionale.

III. Che fare?

Arrivati a questo punto mi pare di sentirmi da ogni parte rivolgere la domanda: Che fare dunque? Io rispondo con una sola parola: la rivoluzione. Questo malessere generale che ormai si acutizza in tutte le classi dei lavoratori – siano essi operai manuali o cultori del genio o del fecondo pensiero – si estende anche nelle altre categorie meno potenti, meno privilegiate, le quali cercano con ogni mezzo di non essere completamente travolte dalla lotta per la vita. Questo disagio quasi generale rappresenta le prime scosse della terra in quel punto dove non si è ancora definitivamente assestata, e l’assestamento verrà dopo una grande scossa, dopo un tremendo terremoto. Quindi anche la natura c’insegna che noi non possiamo mutare radicalmente i rapporti economico-sociali se non compiamo l’atto rivoluzionario, l’atto definitivo che deve completare, anzi attuare, quella rivoluzione che già è avvenuta nel pensiero nostro. Tutto il resto è vana retorica, se non è spudorata menzogna. Il trionfo del quarto d’ora, la soluzione del problema della giornata, il riconoscimento legale dei diritti che altri devono poi concedere; l’attesa del proprio benessere della sapienza, dell’onestà, dall’attività di altri, sono tutti palliativi, tutti ritardi, tutte illusioni, tutte mistificazioni.
La rivoluzione non è un capriccio, non è una degenerazione, non è una malvagità, ma è una necessità. Bisogna che ogni uomo possa assestarsi sulla terra come egli vuole, bisogna che si senta completamente libero nei suoi atti e nel suo pensiero, bisogna che l’individuo non s’imponga alla collettività, come la collettività all’individuo, e ciò non può venire se non col trionfo della grande rivoluzione livellatrice e liberatrice di tutte le ingiustizie, di tutte le miserie e di tutte le schiavitù. Solo allora si verrà stabilendo il vero equilibrio sociale, che darà inizio ad una novella gagliarda vita che sarà veramente vissuta da ogni individuo, perché tutti educati alla scuola dell’operosità e della libera iniziativa.
Come già in altro punto di questo modestissimo lavoro ho detto, saranno gli stessi bisogni che regoleranno i rapporti fra individui, collettività e popoli; saranno i bisogni che regoleranno le attività, le iniziative, la produzione e gli scambi dei prodotti. Però bisogna che anche i rivoluzionari e gli anarchici un po’ alla buona, comprendano che la rivoluzione non è la rottura di un vetro, la ribellione sciocca alle guardie in un momento di sbornia, ma è l’azione costante, coscientemente ribelle a tutte le presenti ingiustizie, a tutte le attuali concezioni economiche politiche. Bisogna fare il grande vuoto all’attuale edifizio sociale, sottrargli quanto più sta in noi i difensori ed i coadiuvatori, non bisogna lasciarci assorbire né moralmente né finanziariamente, non bisogna alimentarlo, ma scavargli l’abisso che lo travolga. E voi, o lavoratori di campi e delle officine, voi che pur seminando e mietendo ciò che è il frutto delle fatiche vostre dovete tutto consegnare a chi nulla produce, voi che costruendo macchine, case, mobili, vesti, oggetti di bellezza e d’arte dovete rimanere sempre miseri, sempre schiavi, sempre iloti, comprendeteci una buona volta, ascoltate i nostri consigli, cominciate a scacciare lontani da voi i pastori della Chiesa e dello Stato e lo stuolo dei politicanti, ed unitevi alle nostre falangi ribelli che lottano per il trionfo dell’integrale emancipazione umana, per il trionfo del tanto temuto, calunniato ma pur tanto bello e grande ideale dell’Anarchia.

La Spezia, 1909.

Comunicato segreteria nazionale USI/AIT sullo sgombero di via dei Conciatori

Posted in Circolo on 20 gennaio 2012 by circoloanarchicogfiaschi

Stamattina all’alba è cominciato, a Firenze, lo sgombero dello stabile occupato in via Conciatori n.4, sede tra l’altro dell’Unione Sindacale Italiana (USI-AIT),  del Circolo Anarchico Fiorentino e del “Progetto Conciatori”.
A questo sgombero è stata opposta resistenza, alcuni compagni sono saliti sul tetto cercando di resistere; mentre le cariche della polizia colpivano i compagni in strada che manifestano contro lo sgombero.
L’unione Sindacale Italiana condanna come fatto gravissimo l’attacco poliziesco alla sede di un sindacato di lavoratori e ne denuncia il livello di repressione che questo sgombero comporta, a maggior ragione quando ciò avviene ad opera del rappresentante di un partito che si dice dalla parte dei lavoratori.
Il sindaco della città non ha mai voluto ascoltare la proposta di autorecupero dello stabile da parte del “Progetto Conciatori”, ma ha abdicato ai voleri della speculazione privata.
Con lo sgombero di via dei Conciatori Firenze perde un’esperienza di autogestione che le ha dato importanti iniziative culturali e un progetto politico e sindacale unico per la difesa degli spazi sociali, del territorio e di tutti gli sfruttati.
Ancora una volta come Unione Sindacale Italiana siamo colpiti dalla speculazione che attacca le nostre sedi, esattamente come avvenne nel 1925 quando il regima fascista requisì tutte le sedi dell’USI, sedi che mai lo stato democratico ha pensato di restituire.
La Segreteria Nazionale e la Commissione Esecutiva dell’USI-AIT esprimono ai compagni fiorentini e toscani a nome di tutta l’USI-AIT la vicinanza e solidarietà e dichiarano il proprio sostegno a tutte le iniziative che i compagni fiorentini e toscani decideranno di mettere in atto.
Analoga solidarietà e vicinanza va anche a tutte le altre realtà presenti oggi all’interno dello stabile in via dei conciatori.

 

Segreteria Nazionale e Commissione Esecutiva USI-AIT